Talvolta ascoltando politici, sindacalisti, rappresentanti
di Confindustria, giornalisti e noti opinionisti che discutono animatamente
dell’articolo 18 in varie trasmissioni televisive, si ha l’impressione di gran
bailamme e confusa bagarre che infiammano gli animi, ma non fanno riflettere su
dati realistici ed indiscutibili.
Sembrano personaggi di una realtà virtuale, lontani dalla
gente comune che ogni giorno deve far quadrare il bilancio familiare tra mille
difficoltà. Anche il denaro sembra essere diventato virtuale, staccato da
parametri reali, regolato da entità astratte come Spread, agenzie di rating e
speculazioni finanziarie che lo fanno sparire e ricomparire qua e là condizionando l’economia reale.
E allora ci si chiede
come mai coloro che discutono dell’articolo 18 non si siano accorti che esso è
ormai già superato da migliaia di quotidiani licenziamenti, da fusioni e
consequenziali perdite di posti di lavoro, da flessibilità e mobilità entrate
nel sistema da diversi anni incrementando precarietà, disoccupazione e lavoro
nero.
L’aspetto più assurdo della faccenda poi è che si parla di
“rilancio dell’economia” senza mai affrontare lo spinoso problema delle delocalizzazioni alle quali si accenna” en passant” senza
affrontarne veramente tutte le drammatiche conseguenze sui diritti dei
lavoratori occidentali, diritti conquistati con dure lotte nel corso di un paio
di secoli.
E’ vero anche i sindacati in passato hanno sbagliato non
discernendo tra lavoratori seri e fannulloni, proteggendo spesso tutti
indiscriminatamente, ma basterebbe eliminare tali aspetti negativi senza
distruggere un sistema che garantisce legalità ed equità contro eventuali
soprusi.
Così invece di estendere decenti condizioni di lavoro anche
ai paesi del terzo mondo e a quelli emergenti, si attuano piani globalizzati di
duplice sfruttamento sia in Occidente che nei suddetti paesi, usando minacce
ricattatorie di delocalizzazione per bloccare le giuste proteste dei lavoratori,
in particolare di quelli che vivono nei paesi europei più deboli.
Vogliamo tornare indietro di due secoli quando in seguito
alla Rivoluzione Industriale i lavoratori (tra i quali si annoveravano perfino
bambini!) erano trattati come bestie? E’ esattamente ciò che sta accadendo ora
nei paesi del terzo mondo dove non esistono sindacati, dove non si rispettano regole
né verso le persone né verso l’ambiente, con palesi violazioni di diritti umani
e tassi d’inquinamento così elevati da incidere pesantemente anche sul clima.
Come potremo noi europei essere “competitivi” rispetto a
Cina, paesi emergenti e paesi del terzo mondo nei quali tutto è permesso? E’
chiaro che non ci riusciremo mai se non si imporranno regole condivise a
livello internazionale, ma….c’è la volontà “globalizzata” di raggiungere tale
traguardo? No,a quanto pare.
E’ giusto combattere per l’articolo 18, ammortizzatori
sociali e quant’altro, ma a cosa servirà tutto ciò se poi le opportunità di
lavoro vengono quotidianamente spostate altrove?
Una volta ci si sentiva “sulla stessa barca” poiché i
problemi venivano gestiti a livello nazionale, ora i confini si sono dilatati,
estesi al mondo, una barca molto più grande ma in realtà “ la nostra comune
barca”, quella di tutti gli esseri umani. Ci salveremo collaborando o andremo
tutti a picco?
Giovanna D’Arbitrio