Il
regista coreano Kim Ki Duk
sembra prediligere nelle sue opere un mix di aspetti culturali Est-Ovest
su temi oggi molto attuali, come danaro,
violenza, sesso, temi che inducono a complesse riflessioni per il modo con il
quale suole affrontarli.
Il suo ultimo film
“Pietà”, vincitore del Leone d’Oro a Venezia, narra la storia di un crudele criminale, una sorta di
sadico, insensibile macellaio che tortura e mutila le sue vittime, al servizio
di un usuraio. Egli comincia a provare sentimenti umani solo quando nella sua
vita appare una donna che sostiene di essere sua madre e di averlo abbandonato
da bambino.
Purtroppo anche se nei due
protagonisti si scatena una lotta tra Bene e Male, tra odio e amore, alla fine
sarà il sentimento di vendetta a predominare nella donna nell’agghiacciante
finale a sorpresa, messo in evidenza dallo stile del regista che si avvale di immagini forti, crude e provocatorie, toni
foschi da tragedia greca in cui domina per bravura e incisività l’attrice
protagonista, Jo Min Soo.
Diversi critici hanno
sottolineato il drammatico finale del film, definendolo “catartico”, in qualche
modo segnato da un’elevazione spirituale da profano a sacro esaltata anche
dalla colonna sonora. In realtà quel che appare senz’altro evidente è lo
sgomento degli spettatori di fronte al trionfo di una vendetta ordita con
sottili e spietate trame dalla donna. Altro che pietà! Suscita brividi di
orrore la profanazione dell ‘amore materno declassato a strumento di vendetta.
E francamente anche la locandina del film con il suo chiaro riferimento alla
Pietà di Michelangelo, appare un altro inopportuno accostamento, poiché il
dolore “composto e consapevole” per il sacrificio del Figlio scolpito dal
grande artista sull’ amorevole volto di Maria, è lontano anni luce dall’ idea di vendetta.
La “pietà” comunque è giusto
riservarla a tutte le vittime costrette a subire inaudite violenze in una
società travolta da una crescente perdita di valori sia ad Est che ad Ovest.
Il regista ha affermato in
un’intervista che l’odio di cui parla nei suoi film non è rivolto contro nessuno
in particolare, ma corrisponde alla sensazione che prova quando vede cose che
non riesce a capire. Per questo motivo allora fa un film, “per tentare di
comprendere l’incomprensibile”. Egli sa che molti lo considerano un provocatore e che “in Corea nove critici su dieci lo considerano
pazzo e vizioso: in realtà non vuole provocare, ma essere onesto rispetto alla
realtà, o almeno rispetto alla “sua visione” di quest'ultima.
Forse la chiave per
comprendere il suo ultimo film è nella frase “il Denaro è inizio e fine di
tutto”: con queste premesse cosa ci si può aspettare se non orrori, violenza,
odio, vendetta e morte? In un futuro molto prossimo saremo ancora esseri umani
o ci trasformeremo in mostri incapaci d’amare? Questo sembra essere l’angosciante
dubbio del regista.
Giovanna D’Arbitrio